Una legge ad hoc per la sicurezza negli ospedali?


Il 5 marzo scorso Quotidianosanità.it ha pubblicato l’intervista a Pierino Di Silverio, Segretario Nazionale del sindacato di medici e dirigenti sanitari italiani Anaao Assomed, dopo l’ennesima aggressione a un medico. L’intervistato ha dichiarato: “La condizione dei nostri nosocomi è ormai invivibile ed è improcrastinabile un intervento urgente e concreto per spezzare la catena di violenze, altrimenti nessuno vorrà più curare. Evidentemente non sono sufficienti le forze dell’ordine, ma serve una legge immediata che restituisca sicurezza ai luoghi di cura e ruolo ai dirigenti medici e sanitari” (https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=111677). In poche parole, l’intervistato chiede una legge ad hoc che salvaguardi la sicurezza degli operatori sanitari. Ma è proprio necessario?”



La recente Legge n. 113/2020, «Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni», ha un ambito di applicazione molto vasto poiché tutela tutte le professioni sanitarie e sociosanitarie, comprese le future “nuove professioni sanitarie”. Istituisce un Osservatorio con compiti di monitoraggio degli episodi di violenza e dell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione come stabilito dal Decreto Legislativo in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro n. 81/2008, ma anche di promozione di studi e analisi del fenomeno, della diffusione delle buone prassi in materia di sicurezza e dello svolgimento di corsi di formazione finalizzati alla prevenzione e alla gestione delle situazioni di conflitto nonché a migliorare la qualità della comunicazione con gli utenti. L’osservatorio è composto da rappresentanti dei ministeri della Salute, dell’Interno, della Difesa e della Giustizia, delle Regioni, insieme a rappresentanti degli ordini professionali, delle società scientifiche e dei sindacati. La Legge stabilisce, altresì, che le strutture sanitarie hanno il dovere di prevenire episodi di aggressione o violenza verso gli operatori e devono prevedere, all’interno dei piani per la sicurezza, le misure dirette a stipulare specifici protocolli operativi con le forze di polizia (non è fattibile, per ovvie ragioni, istituire posti di polizia in ogni struttura sanitaria). Nelle ipotesi di lesioni personali cagionate a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, nell’esercizio o a causa di tali attività, la Legge ha poi aggravato le pene, le circostanze aggravanti e la sanzione amministrativa a carico dei responsabili (art. 583-quater e art. 61 n.11-octies del Codice Penale).


La Legge, che era attesa da molti, è improntata però quasi esclusivamente sulla repressione degli episodi di violenza e aggressione nei confronti dei sanitari, poco o nulla sulla prevenzione, che invece viene dettagliatamente esposta nel citato Decreto Legislativo n. 81/2008 e nella Raccomandazione n. 8/2007 del Ministero della Salute. Il primo stabilisce specificatamente che “il datore di lavoro deve valutare tutti i possibili rischi, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori a rischi particolari” (art.28). Tutti i possibili rischi comprende quindi anche il rischio criminoso. Il Decreto Legislativo impone, altresì, al datore di lavoro di informare, formare, addestrare e proteggere il lavoratore circa le violenze e le aggressioni che potrebbero subire.

La Raccomandazione n.8/2007, dal titolo “Prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”, analizza preliminarmente ciò che concorre all’incremento degli atti di violenza (ridotto numero di personale, personale non formato sulla prevenzione e gestione di tali atti, diffusione di abuso di alcool e droga, lunghe attese nelle zone di emergenza ecc.) e suggerisce alle strutture sanitarie l’elaborazione e l’implementazione di un programma di prevenzione (ad esempio, tolleranza zero verso gli atti di violenza e aggressione e il coordinamento con le Forze di Polizia) e l’analisi di quei fattori di rischio che aumentano la probabilità di episodi di violenza e aggressione (revisione degli episodi segnalati, indagini ad hoc presso il personale ecc.). Dopo che i rischi sono stati identificati attraverso l’analisi delle situazioni, la Raccomandazione definisce le soluzioni di tipo logistico-organizzativo e/o tecnologiche necessarie a prevenire o controllare le situazioni di rischio identificate (pulsanti antipanico, impianti video a circuito chiuso, luoghi di attesa confortevoli e idonei a minimizzare fattori stressogeni, oggetti che possono essere usati come arma, procedure per la sicurezza e l’evacuazione di emergenza, un’idonea illuminazione ecc.). Dopo alcune righe dedicate alla gestione degli episodi di violenza, la Raccomandazione tratta l’importante argomento della formazione rivolta a tutti gli operatori, al management e al personale di sicurezza: “Gli operatori a rischio dovrebbero poter ricevere una formazione sui rischi specifici connessi con l’attività svolta, inclusi i metodi di riconoscimento di segnali di pericolo o di situazioni che possono condurre ad aggressione, metodologie per gestire i pazienti aggressivi e violenti. I dirigenti e i coordinatori dovrebbero essere in grado di riconoscere le situazioni ad alto rischio, incoraggiare gli operatori a segnalare gli incidenti, adottare le iniziative di sicurezza più opportune, assicurare che tutti gli operatori ricevano il necessario addestramento. Il personale di sicurezza richiede una formazione specifica che includa la conoscenza dei metodi psicologici di controllo dei pazienti aggressivi e dei sistemi per disinnescare le situazioni ostili”. La pecca della Raccomandazione risiede nella sua stessa natura, infatti si tratta soltanto di un documento con il quale il Ministero della Salute “intende incoraggiare l’analisi dei luoghi di lavoro e dei rischi correlati e l’adozione di iniziative e programmi, volti a prevenire gli atti di violenza e/o attenuarne le conseguenze negative”. Nulla, pertanto, di vincolante per il datore di lavoro in ambito sanitario (ossia il direttore Generale di una ASL, di un’Azienda Ospedaliera o di una struttura sanitaria privata).

Per quanto riguarda la security ospedaliera c’è poi da considerare la sua peculiarità rispetto ad altre tipologie di strutture: in un ospedale o in una clinica chiunque può accedervi senza essere identificato preventivamente, vi sono soggetti sotto stress o agitati che in condizioni normali avrebbero tutt’altro comportamento e altri che spesso non possono prendersi cura di loro stessi. In poche parole, la salute del paziente ha la priorità rispetto alla security. Evidenzio che alcune Regioni hanno deliberato leggi specifiche in materia, tra tutte la Legge Regionale n. 15/2020 della Lombardia che riprende quanto suggerito nella Raccomandazione ministeriale.


Concludendo:


Da più di quattro anni sono docente in specifici corsi di informazione, formazione e addestramento sulla prevenzione e gestione delle aggressioni nelle più importanti strutture sanitarie private (di alcune sono anche il responsabile scientifico) e ritengo che non servano altre leggi a tutela degli operatori sanitari, bensì sarebbe sufficiente seguire le indicazioni della Raccomandazione n. 8/2007, applicare il Codice Penale e sarebbe importante, a mio avviso, che le aziende sanitarie si costituissero parte civile nei processi a carico di chi si rende responsabile di violenza e aggressione. 09/03/2023.